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A volte, quando si è un grande scrittore, le parole vengono così in fretta che non si fa in tempo a scriverle... A volte. (Snoopy)
 

 Attualità - Settembre 2007

 

Antonio Rezza - Credo in un solo oblìo (di Nicoletta Bartolini)

 

 

Io Antonio Rezza non lo conoscevo. Mai visti i suoi spettacoli, mai letti i suoi libri. Ne avevo soltanto sentito vagamente parlare in termini divertiti ed entusiastici e così la mia innata curiosità mi ha spinto a documentarmi un po’ e a sbirciare anche qualche filmato.
E’ un comico, mi avevano detto. E invece la tristezza, questo mi ha colpito di lui.
Così, quando ha presentato il suo ultimo libro da  Feltrinelli, ho voluto incontrarlo, ascoltarlo dal vivo.


Era una giornata iniziata da poco.
Comincia così la giornata, da poco.
E a poco a poco si fa lunga, insopportabile, fino a sfinire.
E così i mesi.
E così gli anni.
E i secoli che non vedremo.
Ma ora ci vediamo.
E ci vediamo poco. E a poco a poco gli occhi abbassiamo.
Cala così la palpebra. A poco a poco. E si allunga sull’occhio per proteggerlo.
E la vista svanisce.
Come i pochi amori.
Come i pochi amici
E i figli che mai abbracceremo.
Un figlio nato morto  non è che un vecchio morto prima. Molto prima.


Questo l’incipit del libro.
Un libro che non promette di far stare bene il lettore e che sovverte regole e tecniche di scrittura.
Si parla di ricerca della propria identità: un uomo vuole farsi una fotografia per guardarsi bene in faccia, ma nel momento dello scatto si muove e così nella foto lui non c’è. Ma avrà lo stesso il suo documento di identità, solo che continuerà a entrare e uscire da identità altrui, alla disperata ricerca della propria.


La fotografia del documento, da dove vado e torno con depravazione, è come una porta dove al di qua c’è quello che lascio e aldilà quello che trovo. E in mezzo ci sono io che non so se dannarmi per l’una o per l’altra iattura”.


E – continuando nel viaggio verso se stesso - Antonio parla di morte, di tombe scoperchiate, di cadaveri senza volto, di bambini nati morti o di bambini solo voce e soprattutto di una bambina:


“... avevo una figlia di nome Maria che adesso non ho più. Era una bambina dai capelli lunghi e le braccia affusolate. E così le spalle, e così le gambe. Infante delicata e soffice come i primi fiocchi, sottile e leggera come filo d’aria.
La mamma morì nel darla alla luce e io la accudii con ardore negli anni a venire. Tanto le volevo bene che tenni solo per me la sua esistenza. La nascondevo mentre cresceva, nessuno, neanche i miei genitori, seppe mai di questa povera figlia. Quando la madre perì  dissi ai più cari che aveva perso la bambina. Loro mi credettero, e io iniziai una vita fatta di ambiguità e di amore disperato. Non volevo che alcun occhio si posasse su Maria, sarebbe bastato lo sguardo di chiunque per sgualcire la sua bellezza inarrestabile. Le tolsi il contatto con il mondo ma le aprii le porte del mio cuore. Un solo cuore a battere per lei.
... E tutte le volte che la osservavo sentivo di sporcarla un po’ per via delle pupille sudice e corrotte da quel che ruota intorno all’uomo.
E allora la rinchiusi nel pensiero per non vederla più. La presi con le braccia, me la ficcai a forza nella fronte e la nascosi tra le pieghe immacolate della mente per dedicare a lei solo l’idea.”


Una bambina che tornerà molto più avanti e capiremo – forse – che...          
Qualcuno nella sala, che ha già letto ed esaminato il libro, gli fa presente che dalle sue pagine emergono degli elementi che possono rievocare grandi scrittori del passato, tipo Carrol per esempio e poi... ma  Antonio candidamente afferma:
- Io non leggo, io scrivo... non conosco questi autori, non ho tempo per fare tutte e due le cose!
E ribadisce che tiene moltissimo a questo libro, che è più importante di se stesso come persona presente lì in quel momento. Un libro che ha scritto a tratti, durante un percorso durato qualche anno.
Che sia un libro sofferto e sofferente si percepisce in ogni pagina, grondante dolore e rabbia, a tratti delirante, visionario. Per niente tenero:


Passa una farfalla, sbatte le ali, non ha altro da fare. Si posa sul fiore che mi è cresciuto in fronte e trova pace.
Ondeggio il capo per farla cadere, si aggrappa al polline e mantiene l’equilibrio. Poi lo smarrisce e casca per terra: le strappo le ali prima che le perda. Non vola più prima che sia tempo. Libero le ali che da sole non vanno da nessuna parte: spicciola solidarietà degli strumenti asserviti al baricentro lordo.
E io, che non ho mai volato, faccio la figura di chi è vivo”.


E, ancora, in questo libro si parla di ombre.
Ombre che si distaccano e viaggiano sole, si perdono, si ritrovano, insidiano, ingannano...


Ci sediamo uno a fianco all’altra. Non riesco a guardarla, faccio fatica a capire se dà le spalle o se le lascia dietro. È così esile e così lieve. Allunga una  mano su di me e io non provo niente, noto solo che il mio braccio si colora dell’ombra delle dita sue che sfiorano. Ma non ne sono sicuro, un’ombra se ti tocca non lo dà a vedere. Dopo un po’ mi bacia, io non avverto le sue labbra ma sento la mia bocca divenire scura. Presto si adagia a terra e fa cenno di salirle sopra. E io come un demente le monto su e mi trovo ad agitare sul selciato con lei sotto che si muove scossa dalle percosse dell’amore. Il pene eretto sbatte contro l’asfalto all’altezza dell’ombra delle cosce sue. Se passasse qualcuno mi prenderebbe per un pervertito, ma nessuno si avvicina e questo è il dramma mio.”


Insomma ci sono elementi sufficienti a scriverne più di uno, di libro. Invece Antonio Rezza concentra tutto in queste  pagine, in un percorso che si intuisce facilmente intriso di quella tristezza che mi ha colpito al primo impatto, ma quando qualcuno gli chiede di parlarne, della sua tristezza, lui dice no. Sarebbe un “avvicinarsi” troppo, lui è un combattente, questo vuole essere. O vorrebbe.
Confesso, ho cominciato a leggere il libro soltanto un’ora prima della presentazione: le prime quaranta pagine, poi a tratti fino al finale. E non mi ero fatta una grande idea... troppe regole infrante, un linguaggio che qualunque editore o scuola di scrittura avrebbe castigato.
Poi però ho capito e l’ho capito guardandolo in viso, dietro quei riccioli che tentano di nascondere gli occhi.
Questo non è un libro classico, è un grido.
E questo grido mi ha colpito nel profondo, forse perché ha toccato corde che conosco bene, quella strenua ricerca dell’identità, quel vagare anche disordinato in cerca di non si sa bene cosa, quello smarrimento che a volte rischia di sopraffarti di fronte alla realtà della vita...
E si arriva a parlare di Dio.
Il discorso viene fuori durante il dibattito e lui, di nuovo candidamente afferma:
-  Per me “Dio” è un suono - scusandosi persino del refuso finale, dove la parola “dio” è scritta con l’iniziale minuscola e lui la corregge puntigliosamente a penna su tutte le copie.

Arrivano le domande, lui sorride alla signora al mio fianco:
- Scusa mamma, devo dire quello che penso.
E racconta che il suo discorso con la religione si è risolto tanti anni fa e da allora Dio semplicemente non c’è. L’unica autorità esistente e che riconosce – e in qualche modo combatte - è lo Stato. L’imposizione della religione l’ha vissuta come una violenza e per questo ora scrivere una bestemmia è soltanto un atto liberatorio, un piccolo piacere che scaturisce dal fondo. Ne parla con tono quieto, pacato. Non c’è rabbia o avversione, non c’è niente.
- Lei è più vicino a Dio di quanto pensa! – gli dice una gentile signora.
Sarà che sono seduta vicino alla sua mamma, che ora sorride, ma sorrido anch’io.
Lui resta pacato, tenero persino. E continua a scuotere i suoi riccioli dicendo di no.
- Lei è un angelo di Dio! – insiste la signora, mentre la mamma e il papà di Antonio si scambiano uno sguardo ...
Non lo so, l’uso della bestemmia è una cosa che non accetto, anche perché chi non ci crede non dovrebbe avere bisogno di usarla e in ogni caso potrebbe rispettare la sensibilità di chi ne può restare offeso o infastidito ed evitare... ma davanti alle parole così piane eppure dolenti di Antonio resto sinceramente spiazzata. Che succede?

E la vera meschinità è che non possiamo amare mentre amiamo. Siamo troppo presi ad amare da dimenticar che amiamo”.

Amore e morte, identità e ombre, Dio e dio e non Dio e non dio: questo è Antonio Rezza, quello che impariamo a conoscere attraverso “Credo in un solo oblìo”  - altra assonanza casuale!? “solo un titolo che funziona”, dice lui.
Un libro “animale” dunque, nel senso di “anima” ovviamente, che – oltre a tutte le altre considerazioni – offre comunque una speranza di possibilità di uscire dagli schemi. Speranza rafforzata dall’ascolto di tutte le lodi tessute a questo testo da parte della editor della Bompiani lì presente, che ha lavorato a questa pubblicazione.
Resta una domanda, prepotente, irrefrenabile, un altro grido:
se questo libro, così autentico e libero e fuori dagli schemi, fosse stato scritto da un esordiente – illustre sconosciuto – avrebbe avuto le stesse possibilità di venire non dico pubblicato, ma almeno essere preso in considerazione dai signori Bompiani, Feltrinelli, Rizzoli, eccetera eccetera?

Io non ti conoscevo, Antonio Rezza, ma adesso – fortunatamente - sì.
E ho intenzione di seguirti per un po’... a cominciare dal 27 novembre, al Teatro Vascello a Roma! (e non è uno spot pubblicitario... è una minaccia!).

 

Luciano Pavarotti - Mi era simpatico (di Kremuzio)

 

Caricatura di Jan Op De Beeck

A me Luciano Pavarotti era simpatico. Anche se non mi piaceva la musica lirica e di conseguenza ritenevo vecchie e stantìe le arie delle opere ormai così lontane dal nostro mondo e dalla nostra vita.

Forse perché non riuscivo a capire una parola di quel che cantavano, o forse perché a leggerle, le storie erano brutte, a volte piene di un trito moralismo d’altri tempi, a volte semplicemente stupide.

No, niente da dire sulla musica: magari era meglio non cantarci sopra. Per questo tutto il meccanismo per la morte di un cantante (sì, era un cantante, con una bella voce, ma pur sempre un cantante), mi ha stupito e rattristato. Tante belle parole per lui, come se avesse salvato milioni di vite o scoperto una nuova medicina o inventato un modo per non inquinare o fosse stato un esempio per le future generazioni… Non credo che, nonostante le palate di soldi smosse in vita sua, io come cittadino italiano ne abbia beneficiato in seppur microscopica parte. Anzi, mi risultava avesse ville, case e collezioni di opere d’arte di inestimabile valore negli Stati Uniti, e magari neanche uno spicciolo di tasse a far parte di tesoretti che potrebbero, domani, farmi risparmiare in tasse.

Nella sua grassa opulenza comunque mi era simpatico. Forse perché il suo faccione rideva sempre, forse perché girava con la sciarpa anche d’estate. Forse perché si tingeva barba, baffi e capelli come fosse stato uno di quegli strani signori che si incontrano sull’autobus. Un nero eccessivo che ti aspettavi di veder colare lungo il collo al primo do di petto sudato. Sì, mi era simpatico perché aveva questo complesso dei pochi capelli bianchi, e me lo faceva sentire “normale”.

E non mi è dispiaciuto neanche quando ha divorziato per andare con la sua ex segretaria giovane e belloccia, e neanche quando non si è ricordato della ex moglie nei tanto discussi testamenti, visto che ha avuto un certo numero di figlie da lei. Ma nella sua generosità, un bel vecchio miliardo all’autista ed alla sua manager sarebbe stato d’uopo.

Un idolo italiano senza dubbio, dalle mille pecche e mille facce nascoste, fatto su misura per noi aficionados di veline e vecchi puttanieri danarosi, ma che in fondo in fondo sono simpatici italiani come noi. E sì che pensandoci bene, vedrei anche un ritorno alla monarchia. Chi meglio di un Vittorio Emanuele IV potrebbe incarnare siffatte caratteristiche?

Lo faranno santo subito? Io beatificherei anche Claudio Villa e magari inserirei di diritto nell’Olimpo anche “the voice” Frank Sinatra…

 

 

 

Luciano Pavarotti - Pensieri e musica (di Ida M.)

 

Quando un uomo muore non succede un granché. Un granello di sabbia si alza in volo, si perde in un soffio di vento, scompare. Non si ferma il tempo, continua spietato il rapido altalenarsi delle stagioni, oggi fa freddo, domani già correremo al mare.

Poi un canto

ascolta

e qualcosa si muove dentro l’anima.

Quando un uomo muore non si piange per lui, ma si piange per sé. Per il dolore – egoistico – che ci procura il pensiero di non vedere più la persona amata, di dover rinunciare alla condivisione di piccole e grandi cose, di essere destinati a veder sfumare il ricordo di un volto, una carezza, una voce.
In questo caso, la voce non sarà dimenticata.

ascolta

Quando un uomo muore – non ho voglia di spiegazioni razionali – io piango.  Perché una vita è finita e qualcuno non tornerà, uno sguardo si è spento, il distacco ha provocato una lacerazione. E non è retorica, ma paura.

Di un uomo restano i gesti, l’amore che ha seminato intorno a sé.
Di un artista anche le sue opere, la sua voglia di mettersi in gioco, la sua capacità di comunicazione, la sua mai sconfitta energia.

ascolta

E restano anche i sorrisi.

E non avranno importanza poi le chiacchiere, le polemiche, i pettegolezzi, l’eredità, il gossip, il bla, bla, bla... tutto rumore inutile.

La morte, come la vita, richiede


ascolto

 

Questa la cronaca dei funerali.

 

 

Scrittura creativa - Passione e magia (di Nicoletta Bartolini)

 

Alla locanda Almayer ci potevi arrivare a piedi, scendendo per il sentiero...”

Pensate a un casale immerso nel verde, in Toscana. Immaginate due insegnanti di eccezione (Enrico Valenzi e Paolo Restuccia), un tema che non ha bisogno di commenti “Di che cosa parliamo quando parliamo d’amore”, e una trentina di anime assetate di comunicazione e creatività: ecco la full immersion di scrittura della Scuola Omero.

L’idea di restare chiusi per una settimana  in mezzo a tanti sconosciuti, con l’intento di parlare sì di scrittura, e di scrittura “creativa”, ma di dover assolutamente arrivare al risultato, cioè alla “confezione” di un racconto finito... è splendida, non vi pare?
In realtà ero titubante all’inizio: e se non mi venisse neanche un’idea? e se rimanessi immobile davanti al foglio bianco? e se…? e se…? ma la passione mi ha spinto ad andare!
Ed è stato un bene, perchè ho assistito a più di una magia.
La magia, ad esempio, di arrivare un po’ stanca e preoccupata, col borsone dei vestiti puliti e il pc portatile in spalla e ritrovarmi nella tanto temuta stanza “doppia”. Già, ma da condividere con una persona da non dimenticare più: scocca la scintilla e si diventa amiche, come conosciute da sempre.
La magia di condividere il tempo e lo spazio con persone anche diverse, per età, provenienza geografica, esperienza di vita... eppure intendersi al primo sguardo, mettere in comune sorrisi e qualche lacrima. Pesanti barriere ridotte in macerie.
Svegliarsi alle quattro del mattino per rincorrere un’idea e fermare un incipit o perfezionare una frase, trascorrere il pomeriggio seduti davanti allo schermo, su un tavolo in giardino o al bar o alla reception o nel salottino… e dopo cena indugiare a lungo, seduti in cerchio nel cortile, sotto il cielo stellato, con la luna quasi piena, fino a notte fonda, a ridere su strampalate metafore, a bere qualcosa di forte sperando che scaldi da dentro, a commuoversi sugli strappi dell’anima, a parlare di racconti e d’amore...

In bilico sull’orlo della terra, a un passo dal mare in burrasca, riposava immobile la locanda Almayer, immersa nel buio della notte come un ritratto, pegno d’amore, nel buio di un cassetto. Benché fosse finita da tempo la cena, tutti, inspiegabilmente, continuavano a indugiare nella grande stanza del camino.”

E riguardo alle lezioni? Beh, sulla tecnica e la professionalità, come sempre niente da dire.
La passione degli insegnanti si fonde con l’energia degli appassionati scrittori, insieme si legge molto: si comincia con l’amore sfortunato e triste di Hemingway in “Colline come elefanti bianchi” e si prosegue con Carver “Riuscivo a vedere ogni più piccola cosa”. Poi a caccia di una storia, inventare una storia d’amore credibile, accogliendo anche suggestioni musicali o visive per questo. E magari l’idea arriva subito e si comincia a scrivere oppure no, si stenta. Il mattino successivo i proff. commentano gli incipit, suggeriscono miglioramenti, aggiustamenti... e cestinamenti!
Ma si prosegue con le letture e si arriva all’amore come richiamo dell’eros con “La ragazza con la frangetta” di Zadie Smith  e anche all’amore un po’ necrofilo di Bukowski con “Una sirena scopereccia”.  Il tutto, passando attraverso gli “Amori” di Ovidio e poi ancora ...
Intanto si continua a discutere sui testi e sulla scrittura, ad ascoltare, a scrivere e riscrivere. Un giorno dopo l’altro si alza la tensione creativa, aumenta la voglia di raccontare e di confrontarsi, di scambiarsi emozioni, di crescere. Vita pulsante. E così fioriscono storie e personaggi ognuno dei quali entrerà a far parte di noi, di tutti noi lì presenti, a cristallizzare un momento irripetibile della nostra vita.
Che storie? Storie che hanno saputo trovare una risposta alla domanda “Di che cosa parliamo quando parliamo d’amore”?
Beh, se dovessimo giudicare da quanto abbiamo scritto... amori malati e sfortunati, amori infelici, amori fantastici, ossessioni d’amore, follie. E anche una triste fiaba e storie ironiche e divertenti, dove una risata tenta di sdrammatizzare una debolezza, una difficoltà esistenziale.  Ma niente amore romantico a lieto fine, niente cuoricini e rose rosse. Perché? Paura della tenerezza o di scoprire sogni a cui volevamo non credere più? Timore di sembrare banali e fuori dal tempo attuale?
O forse perché quando parliamo d’amore, parliamo semplicemente di noi? E noi siamo diventati così?

Qualche nota di colore sulla full immersion.
Diciamo che il misero numero di ore di sonno totalizzato a fine settimana ha causato poi qualche piccola personale difficoltà di recupero; inoltre a pranzo c’era sempre affettato per secondo e la sera minestra di farro fissa e sempre sempre insalata a foglie quasi intere, però in compenso la piscina era infestata da arzille e acutissime vespe: sapienti insetti, che hanno colpito con decisione, ripetutamente. Per fortuna qualcuno ha debellato immediatamente il veleno, ma a qualcun altro il pungiglione ha bucato la carne, penetrando fino in fondo. E non è più uscito.
E così un piede gonfio, qualche timore, ma poi il miracolo di una pomata al cortisone…
Piccole cose: come un giorno di pioggia improvvisa che costringe tutti al coperto, a scrivere dentro le stanze; come una serata a mangiar fuori un piatto di carne che buttava sangue; come il fascino di un belvedere notturno, pietre calde di un antico castello; come la più struggente “vita spericolata” al karaoke quell’ultima sera, la luna fredda, il tempo che sta per svanire…

Poi al mattino, l’ultimo giorno, piegati i fogli e spenti i portatili, tanti abbracci e già nostalgia; qualcuno avrebbe voluto restare, non andare mai più: non ricordava nemmeno di aver lasciato qualcosa altrove. Ma…
Il tempo si è fermato per un breve istante in quel casale immerso nel verde, in Toscana.
La più grande magia si è compiuta.

L’uomo lasciò la locanda la mattina dopo. C’era un cielo strano, di quelli che corrono veloci, hanno fretta di tornare a casa. Soffiava vento da nord, forte, ma senza far rumore. All’uomo piaceva camminare. Prese la sua valigia e la sua borsa piena di carta, e si avviò lungo la strada che se ne andava, di fianco al mare. Camminava veloce, senza voltarsi mai. Così non la vide, la locanda Almayer, staccarsi da terra e disfarsi leggera in mille pezzi, che sembravano vele e salivano nell’aria, scendevano e salivano, volavano, e tutto portavano con sé, lontano, anche quella terra e quel mare, e le parole e le storie, tutto, chissà dove, nessuno lo sa, forse un giorno qualcuno sarà così stanco che lo scoprirà.”

                                                                                                

* (il testo in corsivo è tratto da “Oceano Mare” di Alessandro  Baricco)

L'ora di punta - Mi è sfuggito qualcosa? (di Guendalina)


Chiariamo subito che non sono un’esperta di cinema, per carità, quindi parlo dal punto di vista dello spettatore comune. Però questo film qui, lo consiglierei soltanto al mio peggior nemico, oppure a un amico del cuore sofferente di insonnia.
Una pellicola inutile.
Una storia banale, il solito arrampicatore sociale che pur di arrivare non esita a usare le persone, calpestando chi gli sta vicino e arrivando infine ad accettare anche le estreme conseguenze, pur di mantenere la posizione acquisita. Che c’è di nuovo?
Ritmo lento lento, lunghissimi e silenti primi piani. Che bisognava leggere in quegli sguardi sempre uguali? Ho inforcato i miei occhialetti da intellettuale cercando di calarmi nella parte dell’intenditore, ma scusate se non ci sono riuscita.
E che dire della recitazione dei protagonisti? L’interprete maschile  sfodera una bella faccia, fissa, immobile. Sempre la stessa: quando parla col suo superiore, quando fa sesso, quando mente spudoratamente. Che sia nascosto proprio qui il pregio della recitazione o del messaggio del film? Mantenere sempre la stessa espressione, accada quel che accada?
E idem per Fanny Ardant, che probabilmente interpreta se stessa (non seguo il gossip, mi spiace). Bella donna, indubbiamente. Un bel sorriso, accento francese, occhi truccati. Tutto qua.
L’unico personaggio appena credibile è proprio uno dei personaggi secondari, quello che alla fine ci rimette le penne.
Peccato che il cinema italiano venga rappresentato nelle manifestazioni importanti da questo tipo di film. Possibile che non si produca niente di meglio?
Solo un dubbio mi coglie: non mi sarà per caso sfuggito qualcosa, durante quel paio di pisolini che ho schiacciato sulla poltrona del cinema?
Scusate, non ho capito nemmeno il titolo… sigh! Scuola ermetica?
Va bene, questo è il primo che ho visto dei reduci da Venezia, spero di avere miglior fortuna prossimamente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



   
 
 

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