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A volte, quando si è un grande scrittore, le parole vengono così in fretta che non si fa in tempo a scriverle... A volte. (Snoopy)
 

 Attualità - febbraio 2008

 

Porthos, all’improvviso (di Nicoletta Bartolini)

 

Un incontro casuale, ma qualcuno dice che nulla accade per caso.
Era da un po’ che accarezzavo l’idea di capire qualcosa in più sul mondo del vino. Peccato però che ad ogni accenno a questo mio progetto, tutti i miei amici scoppiassero a ridere. Un’astemia che vuole fare un corso di degustazione vino?
Testarda, ho sbirciato qui e là e infine... eccomi approdare alla lezione numero uno del corso base, nella sede di Porthos.
La prima sorpresa è stato l’ambiente, accogliente e simpatico. Adatto a stemperare il panico di trovarmi davanti a quattro enormi calici, eloquente indizio di altrettanti assaggi da effettuare.
Poi Sandro Sangiorgi, il responsabile di Porthos, che inizia subito parlando dello stretto legame che unisce la poesia al vino e alla musica. E...

In quale regno o secolo
e sotto quale tacita
congiunzione di astri
in che giorno segreto
non segnato dal marmo,
nacque la fortunata
e singolare idea
di inventare l’allegria?
Con autunni dorati
fu inventata.
Ed il vino
fluisce rosso
lungo mille generazioni
come il fiume del tempo
e nell’arduo cammino
ci fa dono di musica,
di fuoco e di leoni.
Nella notte del giubilo
e nell’infausto giorno
esalta l’allegria
o attenua la paura,
e questo ditirambo nuovo
che oggi gli canto
lo intonarono un giorno
l’arabo e il persiano.
Vino, insegnami come vedere
La mia storia
Quasi fosse già fatta
cenere di memoria.
             (Jorge Luis Borges – Sonetto al vino)

... a seguire, il violoncello di Bach. Un inizio invitante e inaspettato. Poi lezione teorica con introduzione ai vitigni e alle coltivazioni, perché “il  luogo  è lo spartito che la natura mette a disposizione dell’uomo e il vitigno è lo strumento, quindi il vitigno suona  lo spartito!”.
E finalmente eccoci al vino, presentato come “ministro” della tavola, cioè servitore e ancora nozioni sulla varietà, l’imprevedibilità, l’irregolarità, la digeribilità...  Nella seconda parte, finalmente, calici riempiti.

Esame olfattivo del vino. Naso nel primo bicchiere, in pratica. Qualche minuto di concentrazione, inspirando profondamente, con un leggero sottofondo musicale.
Poi iniziano le suggestioni. La domanda è: cosa avete percepito?
Solo un attimo di silenzio. Poi qualcuno: “stalla”.
Stalla? Chiudo gli occhi e torno a respirare nel bicchiere... ah si, eccolo... una vacanza di qualche anno fa, le stalle in montagna, giorni pieni di sole e sudore e allegria...
“Fiori calpestati”? azzarda qualcuno. Che profumo hanno i fiori calpestati? Sandro Sangiorgi sorride: “Ottima idea”.
“Ananas” afferma decisamente qualcun altro. Torno nel bicchiere a cercare l’ananas, come quella che ho affettato per la cena di qualche sera prima... fatico un po’, annuso ancora, poi mi sembra di... cerco di dividere l’odore dell’ananas dal resto, di isolarlo, ma sebbene sia un profumo conosciuto, non è impresa semplice.
“Niente di preoccupante”, ci rassicura il nostro prof., “ è soltanto una questione di applicazione. Si può imparare”. E sorride ancora, mentre ci invita all’assaggio. E a prestare attenzione al comportamento del vino nella bocca, alle sensazioni che si sviluppano sulla punta della lingua, lateralmente e poi in fondo e tutto intorno.
E’ un viaggio sensoriale completo, che coinvolge la mente e il corpo. Passando attraverso il cuore.
Come una poesia. Già, perché anche raccontando la semplice ricetta delle penne all’arrabbiata, come piatto adatto ad esaltare un determinato tipo di vino (il cui nome ovviamente non ricordo), il nostro insegnante paragona l’amalgamarsi del pomodoro con la pasta... a un bacio.
E come resistere alla tentazione di qualche domanda?

Sandro Sangiorgi, sommelier, giornalista...  lezioni che abbinano il vino alla poesia. Perché questo connubio?

E’ un abbinamento molto fortunato. La poesia rappresenta, da un punto di vista emotivo, le stesse cose che rappresenta il vino e quindi, mentre la letteratura ha altre forme di espressione che hanno a volte anche una struttura fatta di schemi, la poesia è una manifestazione spesso molto libera e spontanea e questo produce nella persona che la riceve una lettura profondamente soggettiva. Quindi, come il vino, possiede una tattilità e un’emotività olfattiva che vanno incontro alla memoria dell’altra persona con violenza a volte e imprevedibilità: la stessa cosa avviene nella poesia.
È sufficiente per esempio ascoltare o leggere una poesia in una lingua non propria, non tradotta, per capire il valore del suono, la parola intesa anche come suono. In questo la poesia e il vino sono molto simili, riescono a fare presa. Stevenson aveva scritto che “il vino è poesia imbottigliata”.
Inoltre la poesia è spesso una forma di arte breve, breve come un bicchiere di vino e questo avvicina le due forme d’arte. Il vino è una forma d’arte, dove l’artista non è il produttore, ma è la natura che ha fatto scaturire le condizioni perché questa forma d’arte prendesse vita. Il produttore è il custode della forma d’arte, non l’attore.”

 

- Si può “imparare” il vino? E si può spiegare una poesia, secondo te?

Perché no? Certo che si possono spiegare le poesie, si può insegnare a leggerle, a sentirle. Senza per questo privarci dell’istinto che ci guida verso le cose. È importante che alla base ci sia il coltivare una propria soggettività, sia  nei confronti della poesia  che nei confronti del vino. Insegnare a leggere e a capire una poesia significa offrire alla persona la capacità di accogliere questa forma di arte. Imparare a leggere il vino, a comprenderlo, significa aprirsi a forme espressive il più ampie possibili perché la cultura è un fenomeno circolare, non gerarchico, non piramidale. È quello che ho sempre pensato ed è quello che cerco di fare durante i miei corsi: prendo per mano le persone e facciamo insieme la strada.
Insomma, credo che sia una questione di capacità di accoglienza: una persona che non possiede gli strumenti li può ricevere da chi insegna, ma il grado di comprensione di un fenomeno dipende dal grado di accoglienza che ciascuno è in grado di offrire.
Se così non fosse, non ci sarebbe possibilità di imparare qualcosa, di crescere”.

- Qualche notizia personale, sulle tue origini, sulla nascita di questa passione per il vino?

Avevo un ristorante con i miei genitori, mi sono avvicinato al vino da giovane, a 16 anni, quindi è stato facile. Poi negli anni 80 ho coronato finalmente un sogno: la passione per l’insegnamento. Avrei voluto fare il maestro di scuola elementare (in alternativa al cronista sportivo – esperienza tra l’altro avuta per un paio di anni). Quindi il vino, che è un universo così affascinante e magnetico e il mio amore verso il racconto e la narrazione, si sono fuse e dalla fine degli anni 80 ho cominciato a insegnare questo come professione: insegnare il vino e l’universo gastronomico, comprese, oltre al cibo, le altre bevande, come la birra, il caffè, il cioccolato.
Per molti anni ho insegnato in tutte le regioni d’Italia, le persone che partecipano ai corsi di Porthos hanno capito la differenza, sentono che c’è una relazione forte e non è una semplice lezione ma una importante forma educativa in cui la descrizione delle emozioni, il confronto sulle emozioni è l’atto di educazione. Io sono un vero e proprio tramite tra voi e il vino. Questo è molto importante per me, perchè non sarei comunque riuscito a farlo diversamente, come una sorta di lettore di informazioni. Se non avessi avuto la possibilità di un confronto vivo, non avrei saputo farlo”.

Arriviamo a parlare della rivista di Porthos.

 

 

Un progetto editoriale importante, in cui convergono, oltre a elevati contributi culturali e professionali, un notevole impegno economico e organizzativo e che si presenta come un libro: elegante, tecnico, professionale, narrativo, poetico.
Sfoglio l’ultimo numero della rivista, poi torno indietro e mi fermo sul retro della copertina:

Valse triste
Il sole, fra nubi a sprazzi supremo,
invoca anche l’ombra-: malinconia;
la sola con cui dormire potremo,
quando il giorno crudele fugge via-

Ferisce l’astro e la fiaba d’un mondo
perduto che a noi svanì d’improvviso –
ferisce il becco dell’estremo secondo:
solo etica, vuoto – anche il Paradiso!

E noi avanti, esuli per deserti
dove infine tutto si fa incertezza
noi attori di maschere coperti
ecco già l’ombra estrema ci accarezza.

(Alexander Xaver Gwerder)

Qualche pagina avanti e dopo una vera e propria lezione di viticoltura e una monografia sull’Alto Adige... come non rimanere catturati dal racconto delle degustazioni? Questo è un Pinot Nero:
Granato caldo con riflesso arancio. Si coglie senza indugio la varietà del profumo e la sua capacità di trasformarsi, la complessità è spigolosa e viscerale, sa di sangue, ferro e grafite, erbe officinali e rabarbaro, la florealità è caduca e affascinante, i lamponi maturi tengono in vita la nota fruttata, messa in ombra dalla suggestiva fisicità dell’effluvio. In bocca il vino è esemplare per partecipazione tattile, non possiede una grande profondità ma si diffonde con precisione millimetrica; la ricchezza odorosa qualifica la sensualità della corrispondenza gusto-olfattiva.”

Un mondo misterioso. Ricco di suggestioni.

Come sono uscita dalla prima lezione? Beh... dimezzando la quantità del vino proposto per i primi quattro assaggi... non male direi.  Un po’ stordita forse, ma soltanto dalla poesia.

... vita,
sei come una vigna
tesaurizzi la luce
e la distribuisci
trasformata in grappoli

(Neruda – Poesia del Centramerica)

 

 

Atarassia e disincanto di di Mario Corbo (pensieroinespresso)

 

Quando in età ellenistica la filosofia greca accantonò, almeno parzialmente, il suo fine meramente teoretico per offrire soluzioni di pratica saggezza, migliorative del vivere umano, su tutti si stagliò il pensiero di Epicuro, che intese regalare agli uomini una preziosa medicina per la felicità.
Il messaggio epicureo, nel corso della storia della filosofia, è stato variamente e malamente interpretato, soprattutto nel segno di un volgare e deteriore edonismo, derivante dalla confusione dell’atteggiamento epicureo con quello cirenaico. Senza addentrarci in discussioni tecniche per addetti ai lavori, è necessario, però, sgombrare il campo da ogni equivoco e dire subito che l’edonismo epicureo è di quanto più alto e nobile il pensiero greco abbia mai elaborato nella sua storia.
Il piacere, per Epicuro, è quella condizione di armonia interiore e di equilibrio psicofisico derivante dallo stato di “atarassia”, cioè dal controllo, fino a giungere, nei limiti del possibile, all’assenza dei fattori di turbamento. Condizione che può essere perseguita vivendo fino in fondo e con gioia piena tutti quei piaceri, la cui soddisfazione non comporta successivamente un dolore maggiore del piacere esperito. I piaceri, la cui soddisfazione è, invece, seguita da dolori ed angosce superiori ai piaceri stessi, vanno gratificati con grande moderazione e, in molti casi, assolutamente evitati.
Ad esempio, potere, denaro, successo sono piaceri da evitare, in quanto di difficile, se non impossibile gratificazione. Essi, infatti, anche se soddisfatti, risorgono ancora e sempre più pressanti, creando turbamento ed allontanando irrimediabilmente l’animo dall’atarassia. In poche parole, cercare di gratificare ossessivamente alcuni piaceri procura un turbamento tale, in termini di sforzo, di ansia e di tensione accumulata, da annullare il piacere stesso e le sue proprietà benefiche.
Detto questo, bisogna anche evidenziare come la vita di Epicuro sia stata ricca di emozioni e vissuta nel culto dell’amicizia: “l’amicizia trascorre per la terra, annunziando a tutti noi di destarci per darci gioia l’un l’altro”. Splendide parole che ci fanno ben capire come il filosofo dell’atarassia non voglia per nulla indurre ad una sorta di imperturbabilità affettiva, ma ad una vita relazionale densa di emozioni, funzionali all’armonia interiore ed al suo mantenimento.
Ancora oggi credo che la lezione di Epicuro possa parlare alle nostre coscienze tormentate, ricordandoci che il vero piacere è in noi, cioè nella risonanza psichica, all’interno del nostro io profondo, del piacere esperito. Più duratura e rasserenante è tale risonanza, più si apre davanti a noi la strada della felicità.
La felicità è nella vita stessa, nel piacere che la vita sa donare con poco a tutti.
Il disincanto, come atteggiamento costante dello spirito, può diventare distacco emotivo, allontanandoci dal cuore palpitante della vita. L’atarassia ci spinge a tuffarci con entusiasmo nel mare dell’esistenza per godere a pieno di quegli aspetti che possono dare gioia e serenità duratura. Contano solo le cose importanti e le persone amiche, tutto il resto è inutile, effimero ed anche dannoso, perché fonte di sofferenza e frustrazione.
E’ giusto nutrire aspettative alte rispetto ai veri amici, alle cose essenziali, agli eventi fondamentali e costitutivi della nostra vita, perché tali aspettative con molta probabilità non rimarranno deluse, in quanto ben riposte.
Non è giusto, invece, secondo l’ottica epicurea, investire in modo emotivamente significativo in persone non amiche, cose non essenziali, eventi non fondamentali, perché in questi casi la possibilità di un’amara delusione è altissima.
Certo non è facile riconoscere subito i veri amici, come non è facile individuare le cose essenziali che possono donarci un piacere duraturo. Una lista univoca e predefinita uguale per tutti non può essere stilata, neanche dal più grande dei filosofi. Infatti Epicuro si limita a darci solo delle indicazioni generali e dei criteri metodologici.
Tutte quelle situazioni in cui operano persone e cose che ci forniscono un piacere duraturo, la cui risonanza nell’animo è fonte di serenità ed armonia (atarassia), vanno coltivate, perché ad esse è legata la nostra speranza di felicità. Il difficile compito che ognuno di noi deve svolgere durante tutta la sua vita, è individuare e preferire, nei limiti del possibile, sempre e solo tali situazioni. Da esse discenderà il nostro benessere interiore. E’ naturale che ci imbatteremo in continuità in situazioni di segno diverso ma, non investendo in esse nulla o quasi, sapremo proteggerci dalle ricadute negative che il loro impatto determina sulla nostra psiche.

 

“CHE FINE HA FATTO Mr. Y”  - Scarlett Thomas di Crono Kidd

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Ci sono libri che segnano la nostra esistenza Avete presente di che parlo? Ma sì, sicuro! Ognuno ha il proprio libro segna-esistenza. Per alcuni è stato Cent'anni di solitudine, per altri Delitto e castigo, per altri Favole al telefono, per altri ancora tutti e tre (o altri tre) in momenti diversi della propria vita di lettore.
"Che fine ha fatto Mr. Y" non è tra questi.
Avete letto bene: NON è tra questi. È tra questi? No.
Però è un bel libro. Un gran bel libro! Appassionante. Coinvolgente. Si legge d'un fiato. È scritto bene. (È un bel libro? Sì). A capo.

La storia si srotola seguendo le traversie di Ariel, una studentessa inglese di linguistica autolesionista e assetata di conoscenza, che entra fortunosamente in possesso dell'introvabile romanzo maledetto "Che fine ha fatto Mr. Y". Un libro nel libro. Meta-letteratura. Già visto, grazie. Però...

Però la lettura del romanzo ritrovato offre ad Ariel la possibilità di provare un magico miscuglio che permette a chi lo ingurgita di ritrovarsi in un "universo della mente", chiamato Troposfera, dove vivono tutti i pensieri e dove è possibile viaggiare all'interno delle menti altrui, sentendone i ricordi e le sofferenze, percependone i pensieri, condividendone le conoscenze, vivendole come proprie.
Ancora più sensazionalmente, è possibile saltare da una mente ad un'altra e, passando da parente a parente, da avo a trisavolo, e da questi ai loro amici o conoscenti o semplici passanti, viaggiare a ritroso nel tempo. La domanda che ci si pone arrivati fin qui è "cosa farei e dove - o ‘quando’ - andrei, se avessi la possibilità di vivere le sensazioni e le conoscenze di chiunque?" (La risposta è in un giardino).

Già a questo punto si intravvede una trama insolita. E non è tutto. Perché a questo si aggiunge una tensione degna di un thriller, con veri criminali che inseguono la protagonista e tanto di ricerca di una persona scomparsa. Ma, soprattutto, questa originale mistura di fantasia ed introspezione si regge su assunti tratti da grandi pensatori del 900, quali Heidegger, Einstein e Derrida. Specialmente i riferimenti espliciti a quest'ultimo donano al romanzo un'aura, se non di reale, di possibile. È la parola che si fa oggetto, la scrittura che diventa conoscenza di cose lontane, il linguaggio che fa da tramite tra la sensazione del momento e la prospettiva più ampia della Storia. Spingendosi oltre, l'invenzione letteraria diventa realtà percepibile. La Troposfera è un mondo popolato da parole tangibili. Ogni oggetto è metafora. Il pensiero si fa materia. Si viaggia - letteralmente - sulle proprie interpretazioni del mondo e delle cose, e ogni esperienza è creazione, e noi siamo creature e Creatori, e quel che leggi è vero per il solo fatto che lo leggi, e dunque anche “Che fine ha fatto Mr. Y” non è più un romanzo, ma vita reale.

Criptico? Forse. Posso assicurare che la lettura del romanzo è molto meno faticosa della sua recensione. Un difetto, mi chiedete? Deve per forza averne? Sì, ne ha uno. A volte sembra che la Thomas voglia sottolineare la propria preparazione. S'ode talvolta in lontananza un compiaciuto "quanto sono brava!". E i riferimenti a cui l'autrice si aggrappa sono, alla fine, sempre gli stessi tre o quattro, come se avesse letto un bignami di filosofia, ma anche questo ha un senso nell'economia del racconto: quello che pensi è reale. La storia si basa su quelle teorie, e diventa realistica (reale?) in virtù di esse.

Ma qualsiasi recensione, seppur arzigogolata ed annodata come questa (ma come semplificare un romanzo del genere?), non vi toglierà quel gusto dalla bocca che vi farà desiderare, dopo averlo letto, che ce ne fosse dell'altro. E magari lo riprenderete (rileggetene le prime due righe, una volta terminato: vi si ribalteranno le certezze), lo rileggerete a ritroso, saltandone capitoli, ballonzolando da una pagina all'altra alla ricerca di una sensazione già provata, di una frase da rivivere, perdendovi anche voi in questo romanzo Troposferico chiamato "Che fine ha fatto Mr. Y".

 

Predazione – (Ovvero la vicinanza ai tuoi compagni può causare, talvolta, attenzioni indesiderate.) di Giancarlo Manfredi

Introduzione

Affascinante, misterioso, perverso, bello e mortale.
Nella letteratura romanzesca da sempre (Jennings, Cornwell, …, la lista degli autori è lunghissima) il predatore è considerato l’antagonista perfetto e il tema della caccia o predazione è un classico di molti romanzi d’azione.
Inevitabilmente molte opere cinematografiche hanno ripreso questo tema, spesso amplificandone le sensazioni nel pubblico con ritmi di montaggio intensi, musiche ossessive, scenografie opprimenti.
Inutile dire che noi, lettori e spettatori, stiamo quasi sempre dalla parte della preda o almeno del cacciatore che alla fine della favola salva nonna e Cappuccetto Rosso.
C’è però in questi atteggiamenti culturali e sociali un netto sentore di ipocrisia e di revisionismo.
Perché, se le nostre intime paure (ancestrali o concrete) sono percezioni tanto reali quanto mutuate dai condizionamenti sociali, i presupposti in natura nel rapporto tra predatore e preda non sono così scontati e definiti. Forse, al fine di raccontare o interpretare una storia originale su questo affascinante tema, vale la pena riscoprire e riflettere sui meccanismi alla base della predazione.
I testi scientifici (uno per tutti: Etologia della predazione, Curio Eberhard) definiscono infatti la “predazione” come un rapporto interattivo basato sull’antagonismo. In genere c’è un organismo (indifferentemente animale, vegetale o collega di lavoro) denominato “il predatore” che usa come fonte di cibo un altro organismo che (invero con poca fantasia) viene definito come “la preda”, ma che in realtà possiede raffinati sistemi di difesa.
La predazione può sembrarci quindi un sistema alimentare cruento e “ingiusto” nei confronti delle vittime: il lupo, la tigre, lo squalo (il capoufficio e la suocera) hanno sempre incarnato nel mito collettivo entità maligne e sanguinarie. Talvolta questo è stato considerato un’ottima giustificazione per campagne di eliminazione di questi esseri.
Guardando le cose da un punto di vista evolutivo invece, scopriamo che la selezione naturale favorisce l’eliminazione degli elementi più deboli tra le prede e la conservazione degli individui più forti tra i predatori.
Ma soprattutto le cose sono più complesse di quello che sembra. Volete saperne di più?.


 

Capitolo 1: I predatori appartengono alla categoria dei consumatori.

“La predazione propriamente detta si distingue dagli altri sistemi di alimentazione attuati dai consumatori, quali parassiti e spazzini perché comporta l’uccisione della preda.”

E’ questa una piccola, ma sensibile differenza.
I parassiti non uccidono (subito) l’ospite (e ci mancherebbe altro: ti si infilano in casa e poi prova a cacciarli!), ma vivono in stretta associazione con esso, consumandone, il conto in banca, ed i tessuti o sottraendogli le sostanze nutritive (direttamente dal frigo); gli spazzini si nutrono di tutto quello che è stato gettato via: diciamo anche che non fanno molto caso se c’è ancora il tuo braccio attaccato.
Gli erbivori, infine, possono essere considerati predatori o parassiti, a seconda dei casi e questo fa di loro delle creature politicamente molto ambigue.
Possiamo quindi immaginare e caratterizzare i diversi personaggi di una storia in base al reciproco ruolo e alla posizione relativa nella catena alimentare.
Tutti i nostri protagonisti immaginari sono in qualche misura preda e carnefice allo stesso tempo, ma possono perseguire approcci diversi al modo in cui si affacciano al mercato della vita.
Questa forse è una mia piccola mania, ma trovo che il principio insito nel glifo del “Tao” sia sempre un modello importante per interpretare la realtà.
Così non giustifico il predatore se non per il fatto che forse è più simile di quanto si immagina alla sua preda: talvolta è solo una mera questione di punti di vista.
E del resto questo è un concetto che ci insegna la storia dell’umanità, (ri)scritta spesso dai vincitori.
Ma c’è di più: un comportamento di predazione nei soggetti umani è spesso dettato da problemi di devianza sociale o addirittura di patologia psichiatrica. Non necessità alimentare (quasi mai almeno) e tanto meno istinto di sopravvivenza.
La paura del predatore, quella si che è istintiva, innata e scritta nel nostro DNA: il successo del libro di Peter Benchley,”Lo squalo” e del film che ne è stato tratto, non è affatto casuale.
Parlare di predatori attorno al fuoco aiutava i nostri avi e aiuta ancora noi, scimmie nude, ad esorcizzare tale terrore.

 

Capitolo 2: Perché un predatore possa esistere devono esistere delle prede.

“ L’unicità dell’ecosistema nel lago superiore di Isle Royale ha permesso un singolare esperimento naturale, sulla relazione esistente tra grandi predatori e loro prede. Il luogo è infatti popolato anche dall’alce adulto, un animale  in grado di uccidere il lupo.
Piuttosto che essere il predatore a controllare la popolazione di prede, in questo caso possono essere le prede a fare in modo che i predatori non crescano oltre livelli insostenibili.
Nel 1980, per esempio, la popolazione di alci collassò a causa di un inverno rigidissimo, accompagnato dalla carenza di vegetazione di cui cibarsi. La predazione dei lupi si concentrò principalmente su cerbiatti.  Nel 1996, la popolazione di lupi raggiunse il numero massimo di esemplari mentre la popolazione di prede il suo minimo per oltre una decade.”

Le strategie adottate dalle prede sono codificate nei geni selezionati da millenni di evoluzione.
In genere funzionano fintanto che non sussistono repentini cambiamenti: poi subentra in gioco la capacità di adattamento (di cui la razza umana va tanto fiera).
Di fatto in natura il bilancio tra predatori e prede è solo una questione di economia e di equilibrio; così come nella nostra società troppa ricchezza e troppa povertà non possono convivere senza sanguinosi contrasti.
Viene così quasi spontaneo domandarsi se il numero di serial killer sia una costante demografica o piuttosto sia direttamente proporzionale alla disumanizzazione della società contemporanea. 
Dobbiamo infine spezzare più di una lancia a favore dei predatori: non è, la loro, una vita facile.
Muoversi tra le maree incostanti degli andamenti della Borsa, inseguire le dinamiche dei prezzi delle materie prime, svicolare nel traffico alla guida di enormi SUV non è meno stressante che inseguire velocissimi emù nella savana o rischiare lo scontro con incazzatissimi bufali che vogliono abbeverarsi al solo rivolo d’acqua in tutta la zona!
Una personalità predatoria può caratterizzare un personaggio negativo, ma anche vittima (senza possibilità di redenzione) del sistema. 
Certe volte poi viene da chiedersi se i predatori siano tali solo perché sono le prede a volerlo.
Lo so, questa è una affermazione politicamente scorretta, ma più che ad una profonda analisi psicologica, mi rifaccio ancora alla saggezza popolare laddove si recita: “chi si fa pecora, il lupo se lo…”. Non c’è forse in noi una dose latente di perversione e di masochismo?

 

 

Capitolo 3: Dinamiche predatori-prede

“L’acaro Cyclamen è un vorace parassita delle piante di fragole californiane. Esso, a sua volta, è però preda di un altro acaro: il Typhlodromus.  Eppure, l’introduzione di  tale forma di predazione non è sufficiente per una netta riduzione della popolazione del primo parassita. Solamente l’uso di insetticida è in grado di permettere una notevole riduzione, che permetta ai campi coltivati di sopravvivere.”

Si recita talvolta come “il nemico del mio nemico sia il mio amico”.
Non saprei dire con certezza se corrisponde a strategia vincente sostituire al nostro predatore un predatore più cattivo ed affamato. Questo è certo un meccanismo narrativo spesso utilizzato: i protagonisti (buoni) che ricorrono all’aiuto di mercenari, guardie del corpo, mafie varie, per garantirsi l’incolumità, salvo poi scoprire di essere caduti dalla padella alla classica brace.
Ma c’è di più. Tra predatore e preda talvolta si sviluppa un rapporto personale di univocità, un’attrazione (per usare un termine inflazionato) “fatale”.
Molto più realisticamente il rapporto di tipo predatore-preda in natura è quello riassunto nelle equazioni di Lotka-Volterra, un modello sviluppato in modo indipendente nel 1925 dai matematici Alfred James Lotka e Vito Volterra.
La relazione matematica tiene conto di quattro parametri: il tasso di natalità delle prede in assenza dei predatori; il tasso di mortalità dei predatori in assenza di prede (ovvero, in mancanza di cibo); il coefficiente di predazione (che esprime il numero medio di animali uccisi a ogni attacco da ciascun predatore); il tasso di riproduzione dei predatori per ciascuna preda consumata.
Paradossalmente la presenza di predatori consente al branco delle prede di avere meno concorrenza per il pascolo, alle femmine di avere i migliori maschi in grado di difendere il territorio e ai maschi compagne in grado di garantire una discendenza.
Crudele?  Certo, lo dicevano già gli antichi romani: “mors tua…”.
Naturalmente il modello considera che le due popolazioni si trovino in una condizione di equilibrio stazionario, cioè che fluttuino intorno a un valore di equilibrio riportandosi a esso malgrado eventuali perturbazioni del sistema; tale assunto è stato in seguito ritenuto un limite dell’equazione di Lotka-Volterra, la cui validità teorica è comunque dimostrata dal fatto che ancora oggi costituisce la base di molti modelli impiegati nello studio della dinamica di popolazione.

 

Capitolo 4: Il costo della predazione

“Secondo un modello matematico, i predatori terrestri non possono superare i 1000 Kg di peso poichè non riuscirebbero a sostenere l'alto costo metabolico che ne deriva.”

Uno studio condotto dall'Institute of Zoology di Londra ha identificato la strategia dei carnivori in termini di costi e benefici. I risultati hanno portato alla conclusione che i carnivori terrestri possono arrivare a pesare al massimo circa una tonnellata, limite oltre il quale la cattura delle prede conferirebbe loro meno benefici dal punto di vista energetico rispetto ai costi che devono essere sostenuti nella caccia e nel mantenimento della temperatura corporea.
Tradotto in termini sociologici, nei nostri ambienti di vita (città, uffici, autostrade e ristoranti…) i super predatori (quelli grandi, veramente efficienti, cattivi ed ingordi) non possono essere, pena la mancanza di credibilità di una storia.
In questo senso comportamenti brutali all’estremo come quelli cui assistiamo durante i conflitti sono preoccupanti sintomi  delle potenzialità di autodistruzione della nostra specie.
Ma andiamo al mondo animale: in natura i carnivori che pesano meno cacciano organismi di taglia molto piccola, mentre, superato un determinato valore di peso, i super-cacciatori cominciano a predare specie della propria taglia o superiori.
E forse è per questo, ritorniamo al nostro ambiente sociale,  che in situazioni di pericolo ci sentiamo sicuri assumendo atteggiamenti a “basso profilo”.
Un discorso differente viene fatto dagli scienziati per gli erbivori che possono reperire ovunque le proprie risorse alimentari, senza quindi dover spendere molte energie per procacciarsi il cibo (il che, tradotto nei termini di una ipotetica storia narrata, dovrebbe farci pensare ai predatori di ricchezza economica, forse meno sanguinari, ma altrettanto voraci).
Gli elefanti africani, ad esempio, sono gli animali erbivori più imponenti dell’ecosistema equatoriale. Nei periodi di maggiore siccità, non è raro vederli scalare delle montagne, pur di raggiungere le piante di “senecio”, ricche di azoto, e perciò utili al reintegro dei sali minerali perduti per effetto del clima arido.

 

Capitolo 5: E Star Trek che c’entra?

Com’è facilmente intuibile anche la fantascienza ha prodotto innumerevoli storie sul tema della predazione: affascinanti e creative sono le specie di “predator” stellari inventate dalle menti degli autori a noi cari, anche se, a guardare bene la cosa, più che di speculazioni scientifiche spesso si è trattato di metafore a tutto tondo sulla nostra miseria umana.
La saga di Star Trek, che vorrebbe raccontare una possibile storia futura, ma che spesso è il pretesto per rivedere il nostro presente sotto mentite e argentate spoglie, non è in questo caso da meno.
Ecco, come in uno studio di xeno-sociologia, i tratti salienti dei temibili “Hirogeni”, una razza di implacabili appassionati della caccia alle altre specie aliene senzienti:
La civiltà hirogena, come ci viene raccontata dagli autori di Star Trek, è antichissima e possiede una tecnologia molto avanzata.
Si tratta di una specie umanoide, piuttosto simile ai rettili, che respira naturalmente nell'atmosfera di pianeti di tipo terrestre, ma è estremamente resistente e in grado di sopravvivere in ambienti ostili.
E’ una società che si basa sulla caccia, ma proprio a causa di questa morbosa filosofia di vita, la loro esistenza affronta un periodo di forte crisi a causa della carenza di "prede" da cacciare.
Non solo: il pianeta madre degli Hirogeni non esiste più e l’intera razza è costretta a vivere in navi spaziali che, in solitario o in piccoli branchi, viaggiano con il solo scopo di trovare nuove "prede".
La struttura sociale è organizzata in gruppi di cacciatori, ognuno guidato da un soggetto dominante: è il possesso di trofei di caccia (spesso parti del corpo delle prede) a determinare lo status all'interno di un gruppo, mentre la gerarchia operativa si basa sull'esperienza: segni di colore diverso a seconda del ruolo e del grado contrassegnano i caschi dei vari "cacciatori".
Alcuni Hirogeni pensano che la loro cultura, rimasta immutata nell’ultimo millennio, sia in grave pericolo poiché, assumendo il rito della caccia un ruolo sempre più importante, si è determinato l’arresto di un qualsiasi altro progresso culturale.
Dei predatori temibili che perseguono fanaticamente il loro istinto predatorio con mezzi tecnologici avanzati e con passione animale, ma anche una razza in decadenza.
Solo il dono, da parte dei nostri eroi della Flotta Stellare, di un “gioco di simulazione” olografico (in pratica deviare e concentrare in pratiche ludiche l’aggressività latente della società) apre uno spiraglio di sopravvivenza ad un popolo destinato altresì all’estinzione per sua stessa mano.
Mera speculazione fantascientifica o critica alla “rapacità” di una società violenta?
A voi scegliere la risposta.

 

Conclusione

“Le piante di Opuntia furono introdotte in Australia nel 1832 come delimitatori di confine tra i vari appezzamenti di terreno. Non si considerò però il fatto che tale pianta produceva dei semi molto leggeri, che associati all’alta ventosità del continente, permisero l’impollinazione di quasi tutta l’Oceania. Allorché ci si rese conto della drammaticità del problema, si decise di introdurre nel 1925 un insetto, la farfalla dei cactus come agente di controllo. Tale insetto infatti si ciba dei semi di tale pianta, distruggendo così ogni possibilità di riproduzione finché la pianta stessa muore. Le piante però non sono state completamente sradicate perché tali insetti non si disperdono nel territorio come il cactus. Anche in questo caso, il predatore non è stato in grado di sterminare completamente la preda.”

Le strategie nella predazione, le tattiche, le simulazioni, il mimetismo, sono complesse, numerose e in definitiva affascinanti. Se l’immedesimazione in storie che narrano questo processo è quasi naturale (per quanti filtri culturali possiamo vantare) il problema è proprio l’omologazione sociologica che ci fa osservare la realtà attraverso luoghi comuni tanto rozzi quanto fuorvianti.
Non è un caso, quindi, che le odierne specie di grandi carnivori siano oggi fortemente minacciate, dovendo sostenere alti costi energetici e vedendosi distruggere i propri habitat con conseguenti problemi nella caccia., Di fatto la (temporanea) commozione popolare è spesso maggiore verso quelle specie che nella catena alimentare troviamo sotto di noi e solo di recente si inizia a destare qualche perplessità sulla sorte (di alcuni) dei grandi predatori: quanti (irreparabili) danni ambientali saremo ancora in grado di causare prima di maturare nella visione del pianeta vivente che abitiamo?
Quanti delitti e conflitti, in piccola scala e su grande scala verranno perpetrati nella nostra società sulla base di supposti atteggiamenti predatore/preda?
E quante (a questo punto poco originali) narrazioni ripeteranno il meccanismo del lupo cattivo alle nuove generazioni? 
Credo in conclusione che, semmai esistano altre razze intelligenti nell’universo (che altrimenti rischia di essere il più clamoroso spreco di spazio mai realizzato), dovremo evolverci ancora di parecchio, culturalmente parlando, prima di poter stabilire con queste un rapporto sano ed inequivocabile. Altrimenti il rischio di vedere in E.T. la proiezione delle nostre paure ataviche o, peggio ancora, la proiezione della nostra fame ancestrale, è certamente elevato.
La qualcosa potrà ispirarci bellissime storie di fantascienza, ma tradotta in atteggiamenti reali potrebbe essere alla base di colossali equivoci (e guerre) stellari! 

 

 

 
 



   
 
 

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